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Mobbing: come affrontarlo?

Tra tutte, la forma di lavoro disfunzionale e malato più nota è senz’altro il mobbing. Per questo, grazie al prezioso supporto dell’avv. Annalisa Rosiello, abbiamo deciso di fornire un quadro completo di questo fenomeno.

La prima cosa da sapere è che la definizione di mobbing è data dalla scienza clinica e non da una specifica legge. Il Giudice in questi casi applica la legislazione già esistente a tutela della dignità, della salute e degli altri diritti fondamentali della persona, ovvero l’art. 2087 cod. civ. e, in presenza di demansionamento, anche l’art. 2103 cod. civ.

Ma cosa indica il termine “mobbing”? Il mobbing consiste nel “terrore psicologico sul posto di lavoro”, che può verificarsi attraverso messaggi o comportamenti ostili e contrari ai più elementari principi etici, posti in essere da uno o più soggetti verso una sola persona, che viene messa in una situazione di impotenza e incapacità a difendersi. Dunque, nel mobbing, i “protagonisti” sono sostanzialmente due: la vittima (o mobbizzato) e l’aggressore (o mobber). Non si tratta però necessariamente di due persone, ma di due ruoli in conflitto in cui vittima è comunque in una posizione costante di inferiorità.

Le condotte possono consistere in parole ostili, attacchi personali e professionali, accanimento disciplinare, mortificazione e denigrazione anche in presenza di colleghi, forzata e prolungata inattività, ecc. In particolare, per poter parlare di mobbing le azioni devono rientrare in almeno due parametri tra i seguenti:

  • attacchi ai contatti umani (critiche e rimproveri ingiustificati, gesti e insinuazioni con significato negativo, minacce, limitazioni delle capacità espressive e della libertà di pensiero…)
  • isolamento sistematico (deliberata negazione di informazioni relative al lavoro o manipolazione delle stesse, divieto per i dipendenti di parlare con il lavoratore o, ancora, collocazione del lavoratore in luogo isolato…)
  • cambiamenti delle mansioni (attribuzione di mansioni dequalificanti, senza senso, umilianti)
  • attacchi alla reputazione (calunnie, offese, abusi, espressioni maliziose, insultanti…)
  • violenza e minacce di violenza (molestie sessuali, minacce di violenza fisica…)

Queste azioni debbono essere frequenti e perpetrate in un periodo piuttosto lungo. Il mobbing si configura quando queste condotte:

  • Si realizzano in modo continuativo (almeno 6 mesi)
  • Si realizzano con frequenza (mediamente 2-3 episodi alla settimana)
  • Sono guidate da intenzionalità lesiva
  • Causano nella vittima un danno alla salute e/o alla sfera esistenziale e morale.

Il primo punto non include i casi cosiddetti di “quick mobbing”, cioè di frequenza quotidiana e quindi particolarmente devastante nelle azioni ostili, la cui durata può essere abbassata a tre mesi.

Nel caso in cui il lavoratore sostenga di essere vittima di mobbing, sarà suo preciso onere dimostrarlo e provarlo allegando la frequenza delle condotte, la loro durata e l’intenzionalità lesiva, anche se la giurisprudenza ammette che questi elementi (e in particolare l’ultimo) possano essere ricavati presuntivamente.

Se il mobbing si verifica in un contesto discriminatorio (si pensi alla marginalizzazione di una lavoratrice al rientro dalla maternità) allora si parla di molestie morali a sfondo discriminatorio e gli oneri di allegazione e prova sono alleggeriti.

In ogni caso è sempre consigliato descrivere nel dettaglio gli episodi e dimostrarlo con testimonianze, documenti e attestazioni cliniche. Per tutelarsi è consigliabile inoltre tenere un diario degli episodi, svolgere una relazione sul contesto lavorativo, conservare documentazione scritta, fotografica, telefonica (messaggi), audio…

Ma come prevenire l’insorgere di episodi di mobbing? Con un adeguato e congiunto impegno sia delle figure della sicurezza che di quelle gestionali (HR). Più in generale, le misure preventive trasversali per tutti i fenomeni sono rappresentate dall’informazione e dalla formazione dei lavoratori e del management sull’importanza di istaurare un clima improntato al benessere e al rispetto dei principi etici, nonché dall’adozione di codici, regolamenti o accordi che stabiliscono la “tolleranza zero” da parte del datore di lavoro rispetto a condotte quali quelle qui in esame.

Per un approfondimento del tema vi invitiamo a consultare questo link.